Le recensioni

RYSZARD KAPUSCINSKI

EBANO

Feltrinelli - Pg.277 - 7,50 euro

 Il reporter Kapuscinsky è mancato poco tempo fa. E’ una sottrazione che intristisce e lascia più soli.

Questo libro è il resoconto dei suoi viaggi nel territorio che ‘per pura comodità chiamiamo Africa’. Kapuscinsky scrive ‘con dentro’ quell’Erodoto delle ‘Storie’cui cerca di tener riferimento e che lui stesso definisce ‘un’anima gemella’. 

            Atterrato in Ghana nel 1958 il nostro ‘viandante’ è  colpito da una gran luce abbagliante. Questa è la prima percezione di Africa che ci viene trasmessa. Pochi passi oltre la scaletta dell’aereo, la scoperta definita “principale: quella della gente del posto, dei locali”, così indispensabili e plasmati a quel territorio da far sembrare l’uomo bianco un elemento ‘spurio’, goffo. L’attesa della partenza, il viaggio in autobus verso Kumasi e la conoscenza con un contabile che lì lavora, servono a conoscere cos’è il tempo per l’africano.

Sarà proprio l’insieme di queste persone incontrate sulla strada, a raccontare con Kapuscinsky la sua Africa: quella porzione di vita e territorio che il suo occhio incontra:, la difficoltà di viaggiare per l’Africa, anche solo per brevi distanze, evitando – proprio come Erodono – di fare commenti, ma aggiungere informazioni per puro dovere professionale.

          Il viaggio attraversa i decenni nei vari stati Africani, dal loro affrancarsi dal colonialismo con lotte dolorose, ad un perpetuo e troppo spesso impotente affermarsi sulla scena mondiale. Pesa in modo decisivo il periodo, troppo spesso rimosso (‘dato’ per superato), della schiavitù: “quel commercio (degli schiavi) impresse nella psiche dell’africano una condanna… Io, Nero, sono uno che il mercante… Bianco può comprare…Nelle…note di questi mercanti si trova tutta la successiva ideologia del razzismo e del totalitarismo…” .

Il capitolo su Zanzibar è un affresco sulla complessità di questo continente e le emozioni che suscita: “l’Africa ha sempre esercitato attrazione e timore…il suo interno fu per secoli efficacemente difeso dal pesante clima tropicale, da morbi un tempo incurabili e micidiali e dalla mancanza di strade e trasporti e spesso dall’accanita resistenza dei suoi abitanti.    

            Il testo è un’ emozionante ritratto degli squarci di vita africana nei quali Kapuscinsky si lascia coinvolgere. I suoi rapporti di conoscenza e d’amicizia con persone aficane nascono, si sviluppano e s’interrompono   insieme alla lotta per la sopravvivenza. L’appartenenza del singolo alla struttura di famiglie riunite – i clan –  è vitale: muoversi da soli da un punto di partenza a quello d’arrivo, anche per portare l’acqua, non ha come rischio la noia ma la morte per fame, sete, rapina o sbranati da vecchi e soli leoni che si avvicinano ai villaggi . L’avventura insieme a Salim (per nulla autista) e il suo camion che si guasta mentre attraversano il deserto del Sahara in Mauritania, è un tratto di viaggio in cui dividere ‘l’esile ombra giallastra sotto il camion’ e ‘fidarsi completamente del compagno’ che sta meglio in salute, è il viatico per uscirne vivi e proseguire. Di tutt’altro tono è il viaggio con madame Diouf nello scompartimento del treno che viaggia da Dakar a Bamako: l’istantanea di Dakar che sfila dal finestrino e il racconto dello spavento provocato dal sopraggiungere del treno  a chi ha disposto le bancarelle del mercato lungo i binari. Oppure la disavventura capitata verso Onitsha dove uno dopo l’altro, i veicoli in transito sono costretti a sprofondare in un buca – che diventa ‘il centro della vita locale’ – sull’unica strada ed essere risollevati come pesanti pachidermi per proseguire il viaggio.    

 Ogni lezioso clichè africano - lo stilizzato profilo masai, il branco di elefanti sul filo dell’orizzonte contro il tramonto - è sconosciuto a questo autore. E’ vero che all’arrivo a Zanzibar descrive… “i boschi di palme da cocco, le vaste corolle degli alberi di garofano, i campi di mais e di cassava incorniciati dalla sabbia lucente….”, ma riesce solo a tirare un sospiro di sollievo per l’atterraggio e non può nascondere di raggiungere la città solo con le auto della polizia, percorrendo strade deserte…, superando case distrutte… la città è muta… le porte delle case serrate o divelte,… alcuni ragazzi a piedi nudi, uno dei quali ha una carabina. 

 

L’altro aspetto del reportage riguarda le stanze del potere, gli incontri con i dittatori che usano l’Africa come fosse la tunica di Cristo; cercano di non inimicarsi potenze occidentali ed orientali che chiudono gli occhi su prepotenze e genocidi finchè fa loro comodo, come nella storia del sobillatore ‘fai da te’ Okello, la guerra sanguinaria che ha devastato il Rwanda o l’anatomia dei colpi di stato. Da dove viene il dittatore sanguinario Amin? Sua mamma fugge dalla comunità kakwa cui appartiene verso sud, l’unico punto cardinale che possa offrire qualche possibilità di sopravvivenza. Una pentola come proprietà e si guadagna da vivere cocendo il mais su un fornello e badando al figlio che incontra l’esercito coloniale del generale Lugard il cui ideale erano i giovani nilotici, forti, crudeli e sempre pronti a combattere.

 E’ un libro che restituisce all’Africa il rispetto dovuto e stacca quelle etichette che troppo comodamente questo mondo occidentale appiccica per “isola(re) scrupolosamente questi luoghi di sofferenza collettiva e non vuole sentirne parlare”.

La scrittura misurata dice quello che va detto senza impoverire o annacquare il reportage, traendo ricchezza dal particolare e dal punto di vista che non si nasconde la parte scomoda. Una vera e propria lezione (chissà se i testi di Kapuscinsky si studiano alle scuole di giornalismo?) per le troppe scimmie urlatrici che usano la telecamera come il buco della serratura, o la matrigna di Biancaneve lo specchio di casa.

“Ma di tutta questa varietà, di questo  mosaico cangiante...rimane ancora molto. Più lo contempliamo e più ci accorgiamo di come sotto ai nostri occhi le parti di questo puzzle cambino posto…finchè non sorge uno spettacolo che ci abbaglia con la sua varietà…” La scrittura stessa di Kapuscinsky è ‘viaggio’ nella conoscenza di una cultura diversa da quella europea e per raccontare una cultura ‘altra’ bisogna andare oltre i limiti conosciuti.   

 

Marco Radessi