Le recensioni

PIETRO GROSSI

PUGNI 

Sellerio ed. - 187 pp - 12 Euro

Che fare per rendersi conto di come stanno veramente le cose? Quando tutto da un momento all’altro diventa vero? Com’è che si diventa il più forte? Quattro adolescenti se lo chiedono e sostengono il buon ritmo di queste storie scritte da Pietro Grossi e finaliste al 60° premio Strega. Forse ci vuole una vita per rispondere a queste tre domande, sempre che non ci si nasconda dietro la maschera del mito di noi stessi: ‘adesso ero davvero il più forte…non di quella forza patinata e surreale del mito, ma di quella puzzolente dell’uomo’. Nel terzo racconto Sarà Nico, entrato nel mondo dei grandi, a tirare  somme che non rispettano le elementari regole dell’ aritmetica.

Il primo protagonista è ‘Ballerina’. ‘Figlio perfetto: studioso, sfigato… ubbidiente…. talmente disciplinato che stavo scomparendo dalla faccia della terra’.

Ama la boxe pur senza il fisico giusto.

 La madre gli ha imposto di suonare il pianoforte, che gli fa schifo, come quella maledetta bavosa che gli dà lezione e gli esercizi a casa sulle  note del sordo malefico.

            Grossi impiega le prime pagine per narrare la sfida più importante per il protagonista: quella contro la madre  cui vuole dimostrare il proprio coraggio nello stare al mondo. Una presenza (qui, per me, l’autore ha lavorato di fino proprio all’inizio) che pur scomparendo dalla storia, fa sentire il peso della sua ombra (perché Ballerino non combatte?)  

Questa passione per il pugilato è il rito d’iniziazione alla vita dei grandi: ‘ballerino’ vince ai punti la prima sfida con la madre e ottiene l’iscrizione in palestra. Ha inizio l’epopea, la conquista di quel brandello  quadrato di realtà in cui le cose andavano come dovevano.

Incontra ‘Capra’, lo sfidante sordomuto. Intorno alla silenziosa tensione tra i due avversari –contrapposti per ciò che la vita riserva loro – si sviluppa tutta la storia che li accompagna fuori dalla giovinezza.

Una delle prime scoperte del protagonista, dopo l’ultima ripresa del match è che crescere porta la disillusione, la fine del mito:  ‘forse è questo che vuol dire crescere, rendersi conto di come stanno davvero le cose. Se ci pensi è tanto affascinante quanto triste…adesso ero solo uno come tanti….’

In Cavalli, il secondo racconto, è il vuoto (solo accennato) lasciato dalla perdita della figura materna a creare incomprensioni tra padre e figli. Questa volta è il genitore a mettere nelle mani dei due figli l’occasione di riscattarsi, lontani da un futuro di guai che comincia col furto di liquori ( che li facevano sentire più grandi) nella cantina della vecchia in fondo alla strada. Affida loro due cavalli, perché si assumano la responsabilità di accudirli. 

Questi due cavalli dividono i fratelli: ognuno segue strade diverse per cavarsela da solo.

Gli animali diventano mezzo di trasporto per esplorare l’esistenza e scoprire ‘se era vero che…se si andava avanti senza mai fermarsi…tornavi a casa’… o ‘se andavi avanti e non ti fermavi più non lo sapevi dove andavi a finire’: Nei loro rari incontri, Natan e Daniel raccolgono il frammento di un tempo che sta per essere definitivamente ingoiato nel passato: ‘tutti e due sentirono un po’ la mancanza di quando una volta andavano…’.  

            Nell’ultimo racconto, Scimmie, il protagonista pare in equilibrio precario sulla raggiunta maturità e fa i conti con la disillusione (sconforto?). Nico viene informato che il suo migliore amico comincia a comportarsi come una scimmia e viene richiesto il suo aiuto. Attraverso una serie di telefonate Nico scopre esistenze intorpidite dalla maturità; adulti incerti, ‘con sorrisi imbarazzati’,… affrontano le relazioni… con ‘allegro imbarazzo’: costretti, per vivere a non pensare a ‘quella valanga  di cose non dette che bruciavano come tizzoni’. Si legge il ritratto di adulti che rinunciano a meravigliarsi di fronte al fatto imprevedibile e rocambolesco che anima la storia, quasi che la meraviglia li obblighi a pensare o scardini certezze acquisite a cui stanno appesi come funivie al proprio cavo. Il finale è amaro o disilluso, senz’altro rispetta la risposta di Nico alla domanda di un amico: ‘forse dovevamo vivere negli anni sessanta’: ‘Sì, così saremmo rimasti delusi. Meglio così, siamo nati delusi e basta’.

 

Marco Radessi