Le recensioni

MAURO COVACICH

TRIESTE SOTTOSOPRA 

ED.LATERZA - PG 121 - 9,00 EURO

Trieste.“Oggi la mia città è una Sissi col piercing. Ha ancora le dita affusolate della principessa, ma si mangia le unghie”. (pg 8) Questo piccolo libro di Covacich, per nulla guida turistica, – anche se a tratti è il solo pertugio da cui si defila svelto – è  il racconto accattivante e ben congeniato di storie e situazioni su Trieste e nella ‘sua’ Trieste – raccolti durante una visita – che l’autore riconosce in ogni episodio come scenario dei riti d’iniziazione (e non solo) della sua vita di fanciullo e adolescente. Il risultato è l’invito a camminare sugli stessi passi di Covacich. Più intrigante portarsi questo piccolo Laterza e lasciare l’astratta guida turistica nel comodino dell’albergo.

 Il linguaggio – non didascalico – di ogni episodio è un alternarsi di punti di vista originali sulla città:  per nulla scontato è la passeggiata sul molo Audace: “l’errore che commettono in molti è farsi ingannare dall’apparente insulsaggine di questo pezzo di cemento…e fermarsi prima di averne raggiunto la punta.” (p 61). Originali anche le storie attorno alla crescita di generazioni di triestini avvenuta nel ‘ricreatorio’: un ‘oratorio laico’, eredità della cattolicissima Austria che “aveva concepito l’istruzione ben scevra da influssi religiosi…I ricreatori sono anche il modo con cui buona parte dei bambini triestini imparano a conoscere la città” (p.22)

 Nel castello di Miramare – immagine che meglio rappresenta il clichè ‘della cultura mitteleuropea’ cui questa città è soggetta – Covacich  evita di farci entrare nello sfarzo e si  concentra su notizie intorno alla principessa Sissi non proprio risapute, forse nemmeno dai triestini che la adorano. Queste notizie sulla principessina alternativa, sono la sponda per raccontarci il corpo di  una  città che non sempre porge al prossimo  il suo profilo migliore: così l’autore ci rivela dell’esistenza, proprio sopra il Castello, di quel “covo di premi Nobel e ricercatori sul punto di diventarlo” (pg 6) che è il SISSA e di come Trieste, se ha il coraggio di voltarsi, svela il profilo sconosciuto di Sissi e si lascia apprezzare per il SISSA. Capriola da vertigini, perché accanto a Trieste austroungarica c’è quella “morbida, disinvolta, picaresca…la gente prende il sole sei mesi all’anno…c’è un edonismo antico… un vitalismo moderno…alla californiana” (pg 8) che si lascia scoprire in alcuni episodi successivi, alternandosi a quelle intense pagine su piazza Oberdan con il monumento di Marcello  Mascherini , sulla Risiera di San Saba, l’apprezzabile racconto- reportage sulla chiusura del manicomio di San Giovanni cui è seguita l’ integrazione riuscita (questa sì) delle persone che lì erano rinchiuse con la città. (Covacich aveva già scritto, su questo aspetto  ‘Storie di pazzi e di normali’ in cui  raccontava la vita di menti  tormentate.)   

 Il giro nella città – poichè non è sightseeing – porta l’ospite e non il turista, a incontrare quel modo di pensare tipico del triestino apparentemente (ma non sempre) campanilista, quasi insofferente (e a tratti lo è ) verso l’Italia. Nel capitolo dedicato al ‘vivo e carioca’ quartiere di San Giacomo, che a mio parere – lo conosco bene, come tutta la città – è quanto di più lontano dal clichè cui è ancorata questa città, Covacich smonta le accuse (a volte infondate)  di nazionalismo rivolte ai triestini che temono la capriola di qualche riga fa. Partendo proprio dall’uso del dialettale ‘talian’, brutta parola con cui si apostrofa chi non è della città, pronunciata dall’oste Cosimo, meridionale, nei confronti di due autoctoni, l’autore ci racconta con chiarezza del dialetto triestino, della differenza tra “dialettismo a oltranza ed “esperanto della più altra delle città italiane”.

Covacich riesce – fin là dove può, contro la bonaria noncuranza del triestino verso ‘l’Italia’ – nell’arduo compito di ‘liberare’ Trieste da quell’angolo estremo in cui pare accomodata (e spinta). Spiega e mette al bando luoghi comuni legati alla convenienza politica che sfrutta la storia di questa città, relegando il triestino ad estrema pertica cui appendere il tricolore, lo ostacola nella capriola che concederebbe all’Italia e all’Europa il volto di una città che forse non è “una giovanissima quarantenne dei nostri giorni” (pg6), ma è plasmate da una buona dose di inconsapevole ‘mediterraneità’, alimentata nei decenni dalle diverse etnìe conviventi. 

 2 La ‘sua’ Trieste. Per dirla con Balzac “quando si è fatto qualche passo nella vita, noi sappiamo la segreta influenza esercitata dai luoghi sulle disposizioni dell’animo” (pg 56 Il figlio maledetto)

Esiste poi la Trieste che innerva questo libro e come il fenomeno carsico del fiume Timavo, non è sempre in superficie, ma lascia sentire, nel fluire delle pagine, la sua presenza e chi legge la rincorre. Per me è la parte più riuscita del libro. L’autobus è il mezzo per muoversi – lo stesso usato dall’autore. Non è  un consiglio turistico, ma una scelta legata alla vita affettiva dello scrittore, una scelta stilistica e narrativa riuscita e di buon effetto. L’autobus lega i luoghi di Trieste con la ‘sua città’, quella che gli è rimasta, credo, nelle fibre nervose come bava di bora che non si staccherà mai. Covacich invita il lettore a visitare  ‘questa’ città, trama di vita felice e triste, e lo fa attraverso la voce della nonna: “Appena più sotto il caseggiato di via Biasoletto, restando sempre sullo stesso marciapiede – la sentite la raccomandazione di nonna Lisa” (pg 21) Il lettore entra in questa città parallela, altra, sovrapposta, e nonostante il forte fascino che Trieste riversa su chi la incontra, alla fine non si sa quale città preferire, da quale ritornare: se quel crogiuolo di etnie, convivenze e contraddizioni o quella intima, ma vera dell’autore.

 Marco Radessi

 Personalmente, per quel poco che conta, ho trascorso poco meno di trenta delle mie estati a Trieste. Ricordo il sostenuto e persistente chiacchiericcio negli autobus che prendevo per raggiungere i miei cari a Chiadino, Little Istria, Opicina; i primi affetti da adolescente; il mare; i giri per tutti gli angoli della città e la scomparsa di quella mano calda e voce sicura che mi accompagnava: “il dolore pietrifica la soglia”(p.101)  Per questo anch’io ho la mia Trieste e tante peripezie dell’autore le ho vissute e questa città mi cammina dentro.