Le recensioni
CRISTIANO CAVINA
NEL PAESE DI TOLINTESAC
MARCOS Y MARCOS - 262 pp. - 14.00 Euro
Raccontare, trasmettere il tracciato di storie impresso nei sensi, lungo il sistema nervoso; trattenerlo nell’aldiquà prima che scappi per sempre.
E’ l’ultimo compito di Nonna Cristina che negli anni prima di ‘avviarsi’ trasferisce nel nipote, lungo tutta la sua infanzia, come in una custodia preziosa, tutta la memoria della sua vita, il suo mondo – la famiglia di portalettere, il borgo di Purocielo – “di gente distratta che si accontentava di poco (e) si scoprì uno dei cantoni più miserabili della repubblica” (p.127).
Raccontare non sempre e non solo scalda i cuori. Cavina è a salutare distanza dal ‘raccontare accovacciati attorno al ciocco che dal camino esala …’ e l’unico profumo che accompagna la storia è quello della Spuma di Sciampagna diffuso dalle “mani grandi e morbide di nonna… dai tanti panni che aveva lavato al fiume nell’arco della sua vita” (p.16). Il piccolo ascolta il testamento orale; impara a riconoscere i tempi e i toni del racconto, capisce che ci sono storie che pesano sul cuore stanco della nonna quando “snocciola mentine come grani del rosario”.
Sua mamma Natalina, figlia di nonna Cristina, “dal respiro affannoso del suo continuo lavorare” (p.41) è troppo assente, fuori dall’intreccio narrativo da sembrare morta: mai un saluto o un momento condiviso dell’infanzia del protagonista che trascorre parte dei suoi pomeriggi seduto a giocare accanto alla poltrona da cui “per nonna Cristina era sempre più complicato sfuggire (p.41). Fino al momento in cui, dopo la metà del romanzo, la madre subirà una decisione crudele proprio dalla sua famiglia: credo che a pg 242 e oltre, ci si trovi di fronte ad un affresco con una forte carica emozionale che racconta dell’arretratezza culturale di una società – quella rurale italiana – che nei confronti della donna non andava troppo per il sottile.
La narrazione della nonna è accompagnata da toni di voce altalenanti, prepotenti, timidi, che sottolineano, nell’arco di un secolo, la vita della famiglia Baracca come parte del paese, il rapporto di amore/odio per il figlio Varo, che la felice scrittura dell’autore trasforma in ‘epiche gesta di antieroi’ nelle quali non è difficile rivivere la ‘follia’ di certe situazioni felliniane: l’ingresso di Gustì nella vita della nonna (da pag 55 a 64) o il ritorno di Varo con la cinquecento traballante nel bel mezzo del banchetto per festeggiare la guarigione di Nicolina (pg. 156). La storia prosegue, si divincola nello striminzito appartamento delle case popolari, come il letto di un fiume con improvvisi gorghi e anse da assecondare, finchè non s’imbatte nelle secche del grande silenzio, contro i detriti e il male della guerra a ferire la vita propria e dei familiari e “la guerra diventava un buco nero…uno spazio vuoto, un salto di riga nel bel mezzo di un libro” (pg.90) e ci vorrà del tempo per sapere.
Ma esiste un nervo scoperto che tiene il lettore sulla pagina. Riguarda il piccolo testimone di questa storia. “Era il periodo in cui avevo cominciato a chiedermi alcune cose sul mistero del mio babbo” (pg 94) ed è attorno a questo mistero che il ragazzino – come chi legge – vorrebbe sapere. Ma raccontare è un compito di responsabilità e nonna non vuole assumersi quella così grave di voler svelare una storia forse raccapricciante che toccherebbe alla mamma confidare al figlio. Non posso essere più esplicito per ovvii motivi. Il lettore cerca una risposta assieme al ragazzo, guardando con lui le foto di casa, osservando somiglianze sfuggenti ma puntualmente ripetute nella storia; così intriganti perché mai date per certe che sembrano condurre a torbide conclusioni: trovando la pazienza di fare taglia e incolla, osservando in che punto della storia sono scritte e cosa succede immediatamente prima e dopo, si può ipotizzare una soluzione narrativa sul mistero che mai si saprà se vera, forse neanche nonna ne è veramente messa a parte, o è solo un’esca lanciata dall’autore. (Io ci ho provato: se qualcuno vuole confermare, smentire o dare la sua opinione può farlo mandando una mail all’indirizzo di posta che si trova scorrendo il sito della libreria. Ma non è il cuore del libro!!)
Non c’è mai nulla di consolatorio nella scrittura del bravo Cavina. Ogni episodio ha un risvolto di ruvidezza, nei gesti o nelle parole degli interpreti, come un graffio sui dischi in vinile, quasi a voler raccontare attraverso questi gesti anche il bisogno di crescita culturale e sociale del paese, come ad esempio a pg 140 e oltre, al grave incidente occorso a Nicolina: “…gli uomini che ciondolavano al Bar Nuovo… giusto il tempo di finire i bicchieri di vino che tenevano in mano…decisero di raccoglierla come veniva…radunarono alla meglio le nuove spigolosità del suo corpo e la portarono verso le case popolari” (pg 140), emerge il ritratto di un paese, l’Italia, con tutte le sue lotte da compiere e diritti da conquistare; una società gretta e violenta con i deboli: “…i palazzoni in pietra…vomitavano ogni giorno sciami di bambini urlanti…le braccia incastonate di lividi azzurri come il cielo. Appena compivano i sette anni venivano spediti a Faenza come garzoni e ritornavano scortati dai padroni…(p.65).
(Ma oggi, con il linguaggio parlato appiattito su quello già malridotto della televisione, si racconta ancora la storia con la s minuscola? Ci sono le parole sufficienti dentro il patrimonio culturale del cittadino? E ci sono ancora gli spazi – proprio quelli calpestabili, vivibili, comuni – per raccontare? E il silenzio per ascoltare? Viene in mente la dispersione del Centro commerciale con la frantumazione dell’intimità: a tal proposito mi ricordo ‘la Caverna’ di J.Saramago. Fine del pistolotto.)
In questo romanzo, speculare al raccontare di nonna è l’ascoltare del nipote. Lui lascia che la storia gli arrivi con i suoi tempi e soprattutto senza forzarla o sfoltirla di ciò che è scomodo: “A volte, la verità non era un carillon nuovo di zecca, ma un torchio”. (p.242). Il protagonista ormai cresciuto, saprà legare tra loro le vite di generazioni con i fili del passato per non dimenticare e diventare lui stesso, per i posteri, tramite di storie con eroi vecchi e nuovi, le loro meschinità e le loro conquiste, sentendosi così ricco da dire che chi rifiuta di ascoltare questa eredità “è lui a essersi perso tutti noi” .
Marco Radessi
Di Cristiano Cavina, oltre a questo, è da non perdere:
- Alla Grande – Marcos y Marcos pg 207 € 14