Le recensioni
MARIO SOLDATI
LA BUSTA ARANCIONE
OSCAR MONDADORI - PG 212 - 7,80 EURO
“L’influenza malefica che mia madre ebbe sulla mia infanzia e adolescenza, continuò poi sempre, e ancora non mi ha lasciato.”(pg 30) Mario Soldati racconta la torbida storia del rapporto (autobiografica, in parte ?) tra Carlo e sua madre.
Carlo è poco più che bambino quando suo padre muore in un incidente ferroviario, accanto alla ragazza sua amante. La figura paterna, colpevole di tradimento, è risolta – in un paio di pagine – come un ostacolo, un peso per la vita della consorte e serve da sponda per rappresentare con più forza il carattere geloso e possessivo della madre che dopo la morte del marito “…concentrò tutta la sua passione su di me (Carlo) si vendicò su me di tutto ciò che aveva sofferto e soffriva.” (pg.12). E’questo il momento in cui si forma, in Carlo, la ‘crepa strutturale’, simile a quella che attraversa le pareti delle case da poco costruite: imprevedibile per ingegneri e muratori, in qualsiasi modo la si rattoppi, con stuccature, quadri, lampade a stelo, l’ospite la noterà.
Questo romanzo è la storia di questa crepa, del suo aprirsi, dei pericolosi e troppo spesso inutili, se non rischiosi, tentativi di rappezzarla. Il registro narrativo è a tratti quello del diario, pur senza i canoni classici di luogo e data a separare gli episodi. Ma anche quello del racconto e la voce è quella di Carlo, uomo maturo, nello studio della sua nuova casa ad Auckland, che forse ha scelto di fuggire lontano e per sempre dai luoghi – così ben raccontati – del suo dramma, piuttosto che affrontarli. E’ tardi per farlo, può solo metterli a distanza di sicurezza, sciupando molti dei suoi averi e tutto il suo essere, fino a sembrare rinunciatario. Me lo immagino raccontare la sua storia alle uniche due persone che gli sono rimaste vicine: il fratello Costantino, unico affetto inconsapevole e il fedele tuttofare Giopa.
La madre si incorona unico artefice della vita di questo giovane, gli costruisce attorno un perimetro entro il quale Carlo potrà muoversi, mai scavalcare. Il perimetro è formato dalla costruzione dell’oblio della figura paterna: “…la vendetta (della madre) era questa: a nessun costo io avrei dovuto assomigliare a mio padre…” (pg.13); dalla crescita ritardata: “Tardavo, tra i miei compagni di scuola, a trovare un amico...nessuno…sembrava offrirmi quella tenerezza…che mi dava mia madre” (pg.15); dall’associazione, nella mente di un preadolescente, del peso del peccato mortale con la nascita del desiderio: “mia madre cominciò a …comunicarmi la paura del peccato mortale…il desiderio che avevo di vederle (le donne),… la dolcezza che provavo se, eventualmente, cedevo a quel desiderio, non erano che manifestazioni morbose, segni della tentazione… (pg 14); e, ultimo lato, dall’uso della religione - il sacro e il divino - brandita come un mannaia, un dio infinitamente distante dal genere umano, ficcato a forza nella vita del giovane come schermo di luce ‘violenta’, gli impedisce di vedere intorno: la tensione che si crea tra madre e figlio nella chiesa dei SS. Martiri (da pg 17) è uno degli esempi. I risultati di questa ‘guerra santa’ si leggeranno nelle due storie d’amore importanti di Carlo, in cui una delle fidanzate – scelte in modo che possano ricordare la madre – gli dirà: “E piantala una buona volta con questo ti amo! Non sai nemmeno dove sta di casa l’amore…” (pg. 153)
Esiste un punto tra le pagine 13 e 14 in cui l’urgenza da parte di Carlo di raccontare il clima in cui vive accanto a sua mamma e di raccontare sua mamma e di voler essere ascoltato, è esclusiva e rappresentata con vocaboli inconsueti nel resto del brano, raggruppati tutti in breve spazio sortiscono l’effetto di segnare l’attenzione di chi legge: proviamo a immaginare cosa c’è nel cuore e nella testa di un ragazzo che dice (o di un adulto che ricorda): “con la violenza che le era naturale, mia madre cominciò a terrorizzarmi”, “mia madre cominciò a spaventarmi…”, “ma non si ha idea di quale fosse, davvero, la follia di mia madre se non si riflette…”, “il perché invece dell’odio, che continua…”
Sullo sfondo, vivacchia una Torino borghese, flemmatica, con una guerra, la seconda mondiale, che pare un fastidio; un antifascismo ‘inoperoso’ e ‘velleitario’, scelto da Carlo non per convinzione, ma per contrastare la materna ammirazione alla dittatura. Anche l’amico Alessandro rinuncia a palesare la sua omosessualità, sottomettendosi ai canoni del quieto vivere, si sposa e lo ritroveremo padre di sette figli: “forse il grande torto di Alessandro era stato di non avere questo coraggio…” (pg.47) Questo ‘ambiente molle’ non credo giustifichi del tutto l’incapacità (o la rinuncia?) di Carlo, giovane uomo di reagire alla ossessione materna; incapacità legata piuttosto alla vitale mancanza del confronto/scontro con la figura paterna scomparsa nell’età più delicata, quando cominciano i turbolenti rapporti col genitore, banco di prova per far valere, o anche solo affermare, le proprie ragioni e sentimenti in età adulta.
Alla chiusura del libro rimane al lettore una storia, non proprio d’altri tempi, sulla fragilità degli equilibri familiari e su come il suo incrinarsi generi danni irreparabili proprio quando si è convinti di lavorare per il bene della prole che non è a immagine e somiglianza dei genitori. Portiamo via, come Carlo – il dubbio, un senso di sospensione (forse per motivi stilistici e di conflittualità tra scrittore e personaggio): la busta arancione farà la fine dichiarata da Carlo? Resta però l’illusione di una casa nuova per eliminare la crepa: “…dunque la mia vita era fallita come quella di Alessandro? Probabile di sì…” (pg 47)
Marco Radessi