Le recensioni

IVAN DELLA MEA

ACCADDE A TUSCAMELOT 

JACA BOOK Ed. - pag. 122 -  9,00 EURO

 Ivan della Mea è stato Presidente di ArciCorvetto di Milano dal 1985 e dal 1996 dirige l’Istituto De Martino che qui chiama  Tuscamelot. Questo bel racconto è la storia del trasloco della ‘Officina’ da Milano in Toscana: due esperienze di vita accomunate per Della Mea dalla sofferenza per la morte dell’amico Franco Coggiola, l’amore per i gatti e la passione per le faccende dell’uomo.

Si tratta di narrativa, finzione, un velo a volte così sottile oltre il quale si distingue la testimonianza: il desiderio, o meglio il bisogno urgente di raccontare la storia del passaggio da Milano a ‘Tuscamelot’: “Sappia il lettore che i gatti parlano con me. Se per il lettore credere a quanto detto sopra è impossibile, sappia che può esimersi da leggere queste mie pagine” (pg 7).: “…e allora decisi che dovevo raccontarla questa cosa questa storia… a monte c’era soltanto l’urgenza di dire…” (pg.13).

Traslocano le scartoffie, gli archivi, ogni bagaglio si lascia sollevare e trasportare. Invece i visi, le storie, le memorie, i legami con i personaggi del secondo capitolo e con la città meneghina, questi non possono essere ‘trasportati’ o ‘lasciati’ e  – mai e poi mai – diventare nostalgia. Ma tutti devono essere vita, bagaglio che respira, stare sul continuum dell’esistenza (di della Mea), in un perpetuarsi del presente: “Il passato è soltanto una parte del presente. Non esiste il passato perchè se tu non lo vivi come parte del presente rischi di farlo morire.” (pg 53). Questo nucleo, penso io, scaturisce l’urgenza di dire questa storia – testimonianza: non per consolidare un romantico ‘non vi dimenticherò’, rivolto ai personaggi dell’arcicorvetto  ma per confermare il loro ‘imprinting’ nella formazione di della Mea: “sono stati la mia scuola di vita” pg 22).

 I personaggi rappresentati in questa storia sono i soci dell’arcicorvetto e di Tuscamelot: tutti ex qualcosa, pensionati o rimasti senza compagna, abituati (o costretti?) a trattenere nei loro gesti quotidiani i tempi del lavoro che adesso devono essere riempiti e “se muore la moglie, il vedovo è nella palta totale, (…) non sa lavarsi i pedalini (…) non sa farsi un riso al burro” (p.20) ma tutti, compresi i volontari che si occupano del buon funzionamento dell’arci e di Tuscamelot, quando ne varcano la soglia, hanno il diritto dovere di sentirsi parte utile perché la struttura resista nel suo comandamento principale: “L’Officina era nata da persone oneste (…) questo era un elemento fondamentale (…) perché costringeva gli altri a fare i conti con questa onestà.” (pg 27) Un’ onestà  nelle relazioni, nei sentimenti, nella coerenza al progetto che “ti costringa ad allargare l’occhio al massimo perché devi vedere molto più lontano” (pg 47) e mettere in discussione, con un linguaggio alla della Mea, fondamentali (o tabù) come bene/male, uomo/natura.

 Ivan della Mea racconta le sue giornate ‘con’ i collaboratori, mettendosi in mezzo alle storie e non come occhio che guarda e giudica da un punto di vista distaccato, anche se nel suo ruolo di presidente è ‘obbligato’ a tirare le fila e a raccontarci di questo compito: “(…) sono lì con una grande malinconia dentro (…) di non essere più la persona adeguata per dirigere l’Officina(…) fisicamente non ce la faccio (…) resistere a questa sonnolenza continua mi costa un’enorme fatica (…)” (pg. 46) e dei periodi bui, di solitudine, soprattutto i primi mesi a Tuscamelot: “Poi in una notte di temporale(…) me lo ricorderò per tutta la vita (…) ho visto due mani aggrappate fuori al finestrello e poi venir su una faccia che mi guardava (…) ero io che sorridevo a me stesso (p.29).

 Il linguaggio a tratti sfiora il fantastico o surreale come nel dialogo con i gatti;altre volte è solo apparentemente incerto per voler assomigliare al parlato quotidiano, ma sempre, credo, con l’obiettivo mirato di consolidare il ricordo in memoria.

 Quel che si fa in questa Officina rianima nel lettore il desiderio e l’urgenza di volerne una simile in ogni quartiere   “L’Officina (…) fa esattamente quello che si fa in moltissime officine: assembla i pezzi delle memorie (pg.15)” e tutti i soci collaborano alla trasformazione dei pezzi per ottenere un punto di vista altro; in cui “si cerca di fare pratica della conoscenza e si cerca di mettere assieme questa pratica… con le scienze che le competono” (pg 47) perché: “se non metti insieme scienza e conoscenza il fascismo è dietro la porta e tu gliela stai aprendo. Sei tu che apri la porta al fascismo. Non è lui che l’apre tu gliela apri” (pg34). E’ un macigno, questo lanciato da della Mea. Chiama fuori dalla massa, non dice: “i cittadini” o “voi della sinistra”, ma “tu”; mette l’individuo al centro delle proprie responsabilità sociali, lo sgrava dalla possibilità di dire: “ma…io…forse potremmo…per adesso… poi domani” e intanto la banalità diventa l’anticamera della violenza. In un altro caso Della Mea si rivolge direttamente all’individuo e lo fa narrandoci uno dei suoi deliri: “amare ed essere amati, non amare per essere amati…implica una presa di coscienza totale, personale, soggettiva. Perché sta in te la facoltà di amare e anche di essere amato, non dare questa responsabilità a qualcun altro E’ tua.” (pg 54). I soci della nostra Officina cercano di rubare qualcosa al delirio per spostarlo dalla parte del reale e cambiarlo.

“L’Officina è una cosa dell’amore.”

 

Marco Radessi