Le recensioni

ERMANNO REA

LA DISMISSIONE

BUR Ed. - Pagg. 370 - Euro 9,00

 “Una grande desolata radura, che cos’altro potrebbe esserci?” risponde Vincenzo, il protagonista di questa storia, alla domanda : “che cosa c’è dentro di te in questo inizio avanzato di millennio?” (p.9)  La grande desolata radura interiore è il risultato della dismissione.

Questo testo, assieme a “La costanza della ragione” di Pratolini e i romanzi di Paolo Volponi devono stare sulle mensole delle segreterie di Confederazioni Sindacali, Uffici Personali, società di selezione; tra “schede valutative” e depliant che ‘offrono soluzioni fatte su misura per il tuo tempo’ delle società di lavoro interinale che un personaggio come Vincenzo non se lo meritano.

Perché parla di una concezione del lavoro e della fabbrica che s’incarna tra le fibre epiteliali e cerebrali del protagonista, consolidando di otto ore in otto ore per giorni, mesi ed anni un rapporto uomo - macchina in cui l’essere umano ‘guida’ la relazione come se quest’ultima fosse una compagna da sostenere ed accudire: “io non intendo attribuire un’anima alla macchina (…) l’umanità della macchine è prima di tutto un riflesso della nostra umanità (…) se non c’è, che cosa può fare la macchina se non farsi essa stessa specchio della nostra stupidità(…) (pg 117-8).

            Scelta di vita opinabile e pericolosa viste le considerazioni di cui gode l’elemento umano nelle fabbriche; determinante in questa situazione narrativa perché ci offre l’imperdibile spaccato su due aspetti. Il primo è quello di ‘far rientrare’ nella narrativa  ‘importante’(e Rea è narratore importante) la grande assente dopo i romanzi di Volponi: la fabbrica con i rumori e i ’respiri’ dei suoi macchinari , persino gli ingranaggi e il calore si riescono a vedere in diversi scorci narrativi.

Il secondo aspetto, snodo principale del racconto, è il tormento corrosivo di Vincenzo in merito alla sua scelta di collaborare con la società incaricata di ‘smontare’ l’Ilva per venderla ai cinesi: “allora posso contare ciecamente su di lei Buonocore? Collaborerà sino in fondo?” “Ingegnere” risposi “io non vedo l’ora che questo smontaggio cominci (…)” e poi alla moglie: “Rosaria mia (…) immagino che sarà l’ultimo dei miei appuntamenti professionali: intendo essere all’altezza del compito” (pg 17).

A causa della sua scelta ‘collaborazionista’, si logorano i rapporti con i colleghi, e se non vacillano le fondamenta della sua idea, ‘la grande e desolata radura’che va formandosi, comincia a subire l’assedio dei dubbi: “stronzo”, aveva detto (…) non so cosa mi trattenne. Non certo la paura.(…) Ma io non mi voltai. Incassai e basta Perché? (…) Al più posso avanzare un’ipotesi. L’ipotesi della vergogna. (…) mi vergognavo di quell’ossessione che mi portavo dentro, di quell’assurda idea di fare dello smontaggio delle colate continue la mia opera d’arte (…) una faccenda tutta privata. ( pg.268-9)

            Giorno per giorno la dismissione avanza, senza tregua, sostituisce i pieni con i vuoti e Vincenzo si sente cambiare quasi geneticamente, reagisce in maniera sconosciuta a se stesso: “Buonocore, ma tu una volta non eri così. Che cosa ti è successo? (…) Ancora oggi non so darmi una risposta” (…) (pg351). Così come Rosaria, la moglie, che si prende le pause di riflessione sulla loro vita coniugale: “ecco ti sei chiuso in te stesso: ti saluto Buonocore” (pg39).

 La dismissione, come incidente che può succedere ad una persona o ad un’entità è qualcosa che già sul vocabolario lascia soli per il tempo che se ne legge la definizione, anche se fredda e asettica come richiede il contesto. Dismettere, vuol dire escludere dalla nostra appartenenza. Un elemento dell’insieme di valori che permettono alla persona di stare in società viene escluso  - buttato fuori - dall’insieme medesimo.  Questo processo nel libro di Rea conquista  terreno anche in fabbrica nella quale Vincenzo si inoltra da solo, dopo cena con la sua automobile: “Appena uscii dall’abitacolo, il silenzio mi investì come qualcosa di materiale(…) Senza più fumi ne fiamme; senza più voci (…) senza l’inconfondibile miscela sonora propria dello stabilimento che il buio non ferma (…)(pg19).

Salendo con la gru a ottanta metri di altezza o in cima alla torre più alta del capannone, Vincenzo vede sin dove questa dismissione conquista - quasi fisicamente - spazio e territorio: così a Bagnoli (è come se la telecamera scalasse con Vincenzo le torri dell’Ilva per inquadrare l’Alfa Romeo di Arese, la Pirelli, la Fiat e qualche decennio fa  Marelli,  Breda,  Falck): “non c’è più posto per nessuno, e meno che mai per una persona giovane. Si era così tanto identificata con la fabbrica che, alla scomparsa di questa, era diventata (…) un’assenza di futuro“ (pg184).

            Ne viene fuori il ritratto inquietante di tutti i lavoratori che vivono questa esperienza umana , ma anche di una nazione impreparata ad affrontare trasformazioni epocali: “distruggere all’improvviso una fabbrica può essere anche un’operazione semplice. Distruggere di colpo una civiltà, una cultura, una forma mentis è un altro paio di maniche” (pg 142).

Idealmente Vincenzo è l’amara e deludente conclusione della vita professionale iniziata da Bruno, il personaggio del romanzo ‘La costanza della ragione’ di Pratolini, ambientato nel dopoguerra, che nelle ultime righe dialoga col suo tutore “ ma ora noi siamo qui per ricostruire, vero Bruno?”(…)   e poche righe dopo: “domattina entro alla Gali.” Difatti Martinez, l’intimo amico di Vincenzo gli dirà: “abbiamo creduto in qualcosa, Buonocore. Credevamo nella fabbrica. Sapessi com’era bella: la guerra era appena passata e noi l’andavamo ricostruendo un pezzo per volta.” (pg76)

In mezzo ci stanno le storie di Volponi che parlano delle fabbriche che funzionano a pieno ritmo e delle loro contraddizioni, dei sogni, le conquiste e le legnate dei lavoratori  del ventesimo secolo,  dei loro passi e rumori che riempivano i corridoi delle aziende e le strade.

Secolo che si conclude - in questa narrazione, ma in parte condivisibile anche nella realtà - con la sconfitta del lavoro e di coloro che da punti di vista differenti hanno impiegato una vita a costruire in senso opposto.

Non c’è nessuno che accompagna Vincenzo sull’orlo della radura. Ci lascia, alla fine del romanzo, conquistato dall’incertezza. E’ un grande ‘fallimento sociale’. E questo libro è la sua storia.

 Marco Radessi