Le recensioni
JOHN STEINBECK
FURORE
Bompiani tascabili - pp. 474 - 9.80 euro
Siamo in America – Oklahoma – anni trenta del novecento. I latifondisti si presentano ai mezzadri e dicono: “Un uomo solo, sulla trattrice, ora sostituisce dodici quattordici famiglie…a voi non resta che andarvene altrove”, li minacciano in nome della banca che vuole i suoi terreni… ‘i mezzadri alzavano gli occhi, pieni di spavento’. I tentativi di rivendicare la propria terra conquistata dai nonni contro gli indiani, spazientiscono i rappresentanti delle banche. ‘E noialtri? Come si mangia?”. Solo brevi cenni per dire che il punto di partenza di questo capolavoro della narrativa mondiale è lo spavento di una popolazione raccontato con lo sguardo sull’odissea della famiglia Joad, legata, come altri milioni di persone, alla propria terra di cui sono infangati, incrostati e da questa e dal loro lavoro vengono sradicati.
La crisi del ventinove scuote le fondamenta dell’esistenza, milioni di esseri umani perdono poche ed elementari sicurezze.
Sarà l’ingannevole volantino – oltre all’arroganza delle banche – che pubblicizza lavoro sicuro in California con la raccolta delle arance (già l’ingannevole esca dei media, simile alla televisione degli anni ottanta che ha presentato l’Italia oltreadriatico come paese appetibile per un futuro ‘dignitoso’ ), a costringere questa moltitudine a muoversi, svendere gli attrezzi da lavoro per poco perché ‘non servono più a niente’, ammucchiare sull’aia le cianfrusaglie da buttare e quelle indispensabili da caricare sull’autocarro, in cima alle quali saliranno alcuni componenti della famiglia. Comincia da qui la spoliazione della dignità dell’essere umano che di capitolo in capitolo trasformerà la povertà in miseria, il profugo in nomade nel proprio paese. I Joad protagonisti di questa epopea drammatica e sublime rimangono uniti grazie alla tenacia della mamma, che crede fino alla fine nella solidità della famiglia.
I nostri si immettono sull’arteria 66: ‘il grande itinerario dei popoli nomadi…di gente che migra per salvarsi…dal rombo della trattrice e dall’avarizia dei latifondisti…i profughi sciamavano sulla 66 in automobili isolate, ma più spesso raggruppate in carovane’ e alle loro spalle le case subiscono l’incuria dell’abbandono.
Le arance e la California sono i depositari di progetti e sogni per ora chiusi nella presente instabilità del vecchio autocarro che rende ogni tratto di strada incerto a causa del funzionamento approssimativo. E’ fondamentale il bisogno continuo della famiglia di stare unita ad altri nuclei per sopravvivere alla paura, per condividere il poco cibo, per creare una rete di difesa minima dalle malattie, dall’intolleranza e da quell’arroganza di sentirsi padroni che ostentano gli abitanti delle città attraversate dai profughi. Esemplare è la scena di pagina 248 in cui l’agente calpesta ‘i verdi sprocchetti di carota’ piantati dai profughi in un fazzoletto incolto di terra. ‘Ma l’agente ha ragione. Un raccolto mietuto costituisce un titolo di possesso della terra e conferisce a chi l’ha lavorata il diritto di difendersela…Scacciarli, bisogna, questi intrusi; e subito, senza pietà….’.
L’arrivo in California rammenta la disillusione di chi giunge qui dall’est o dall’Africa. I lavori e le paghe trovati con difficoltà nei frutteti o nei campi di cotone, sono veri e propri inganni alla già provata dignità umana, così come la somministrazione di servizi elementari o l’abitazione: ‘Nei carri bestiame le famiglie se ne stavano ammassate…la radura dei carri bestiame era tutta pozzanghere….ora senza più la tenda di divisione all’interno del carro, le due famiglie formavano una famiglia sola…’
E’ un romanzo epico che narra della crisi della società americana; di quegli ultimi che stentano a mantenersi esseri umani. Narra del lavoro e dell’uomo: di come i due capisaldi della civiltà industriale e della società civile vengono contrapposti come nemici per favorire le trasformazioni legate a progetti di profitto per pochi. L’essere umano delle classi più povere si confronta con queste burrasche e deve patire lo strazio più profondo.
E’ un romanzo che mostra occhi intimiditi e piegati al basso dalla povertà che obbliga a rinunce immeritate e via via più cospicue che erodono gli argini della civiltà. Nessuna società organizzata e nessun sistema economico dovrebbe permettersi di scuotere i tratti fondamentali e universali che identificano l’essere umano. Migliaia di persone ridotte in povertà non sono visibili in società, le loro proteste o proposte non sono credibili, le riduce a ombre, sgretolando quel rispetto per se stesso che l’uomo sente e traduce in comportamenti ‘civili’ e convinzioni nei valori di un moderno stato democratico. Se il disastro accade – e accade – l’ordinamento dello stato deve avere già pronte le risorse per soccorrere le parti più deboli: “ e i pezzenti uscivano dai loro covi, dai fienili e dalle stalle e accoccolati contemplavano la terra inondata….parlando con tragica calma. Niente lavoro fino a primavera…niente denaro, niente cibo. Le donne osservavano i mariti per vedere se stavolta era proprio la fine…..E se scoprivano l’ira sostituire la paura nei volti dei mariti, allora sospiravano di sollievo. Non poteva ancora essere la fine. Non sarebbe mai venuta la fine finchè la paura si fosse tramutata in furore” (pg.452)
Marco Radessi