Le recensioni

ANDREJ LONGO

DIECI

Adelphi - 144 pp - 15 Euro

 Ogni racconto ha per titolo un comandamento.

Il primo contrasto è lo scarto tra la proposta divina scritta su una pagina e la rivelazione della vicenda narrata in quelle successive. Napoli è lo scenario di queste storie. La scrittura di Longo è essenziale nei toni e nella scelta dei termini, senza aggiunte per spiegare ciò che lo svolgersi della trama evidenzia da sé. Racconta esperienze dolorose e storie d’amore, progetti e rimorsi, gesti estremi che il nostro vivere, anche se non molto quieto, non considera. Il dolore che innerva queste storie  non è quello  piagnone ormai stracotto, degradato a pornografia dei sentimenti, di certi racconti o fiction. Nessuno è giudicato per le proprie azioni, non ci sono morali pelose o polvere nascosta sotto il tappeto. Le frasi brevi, i dialoghi stretti ci precipitano nella pancia della storia.

I protagonisti sono quasi tutti adolescenti o giovani uomini che per sopravvivere devono accettare ricatti e vivere emozioni insopportabili: ‘Ho sentito come se avevo preso la scossa elettrica e la testa si è spostata indietro per i fatti suoi. Prima la testa e poi le spalle. E pure una scarica di freddo per la schiena’ dice Raibàn nel decimo racconto-comandamento, cui è stata messa in mano una pistola, all’epilogo della sua giornata cominciata in compagnia di ‘Panzarotto e Rolèx assettati ‘ngopp’a’stu muretto senza fa niente’

Si respira la tensione che come una seconda pelle avvolge i personaggi e le loro azioni già tra le pareti di casa: ‘prima di scendere …mi sono messo il coltello dentro la tasca dei jeans e la piastrina di metallo al collo, che la tengono tutti quanti qua, con scritto sopra nome e cognome, la data di nascita e il gruppo del sangue’, dice Papilù nel primo racconto – comandamento.  Porta i caffè, ma il suo progetto è aprire un’officina e stare lontano da Poggioreale. Una sera all’uscita della discoteca, il boss del rione lo toglie dai guai e diventerà il ‘suo’ signore dio tuo: ‘garantito che succede’ dice Papilù e più avanti, ‘non puoi sempre fa fint’ ‘e niente’.

Una vita combattuta tra rassegnazione e quell’assoluto bisogno di affermarsi, costringe Saverio, nel secondo racconto – comandamento, ad arrivare ‘in fondo a questa giornata, sperando che è l’ultima’, dopo aver tentato di emergere dall’anonimato grazie alla sua ‘voce da tenore che quando cantavo ti veniva il freddo addosso’.

I giorni di Molletta sono una continua ascesa tra i ‘malamente’ del quartiere; l’ambito ruolo di  predatore - ‘arrivi al semaforo…fissi negli occhi quello vicino a te… e l’unica cosa che vuoi sopra ogni altra, è che quello abbassa lo sguardo’ – cambia , quando l’incapacità di sopportare il peso della malefatta si prendono tutta la vita e gli lasciano il rimorso: ‘mi sono sforzato di tenere gli occhi dentro a quelli suoi, ma era una fatica, mi veniva voglia di abbassarli, ma non per paura, quello no. Non lo sapevo perché’.  

Non so se è una scelta dell’autore per rendere più definito il campo narrativo - forse allargandolo, sarebbe cambiato il progetto stesso di questo libro, ma non entra in scena nessuna struttura sociale (misera la figura di don Antonio nel racconto comandamento numero quattro) che funga anche solo da appiglio o momentaneo riparo. Nessuno – a parte la coca con l’acetone, le lattine di birra o la rivoltella nei pantaloni - dà una risposta a Molletta e agli altri.

 

Marco Radessi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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