Le recensioni
ANGELO FERRACUTI
LE RISORSE UMANE
Feltrinelli (Serie bianca) - 222 pp - 12 Euro
Mai come in questi tempi è vitale che si scriva del lavoro e di ciò che gli sta intorno. Dopo il grande e, credo, irripetibile Volponi la narrativa si è allontanata da un terreno completamente trasformato negli ultimi due decenni. Oggi ci sono dei veri e propri tesori come i film di Loach e ‘Mobbing’ della nostra Comencini. Bisogna che scrittori e registi entrino a piedi uniti nel mondo del lavoro, devono sfondare con penna o telecamera l’impenetrabile corteccia dell’indifferenza e delle prepotenza che lo nasconde e protegge come in un feudo, al riparo del progresso e della vita sociale che lo circondano.
Il lavoro di Ferracuti in questa direzione è apprezzabile. Usa il linguaggio intrigante del racconto – reportage per entrare nelle pieghe della giornata prima, durante e dopo le ore lavorative. Ferracuti inizia il suo viaggio alla Fincantieri di Monfalcone dove il cantiere è ‘anche dentro le case e nelle teste delle persone’, così come la morte (duemila morti accertati a causa dell’amianto): parla con i cittadini che nei decenni hanno visto il loro attaccamento al lavoro trasformarsi in morte e hanno ‘imparato’ a conoscere e convivere con un potere industriale e politico che di queste vicende se ne frega, lasciandoli soli. Entra nelle case come quella di Alba e di suo marito morto per aver respirato amianto che ‘si sapeva tutto già da metà degli anni sessanta’ e con scrittura attenta ed essenziale dà voce alla rabbia e alla solitudine di queste persone. Dalle cucine, i modesti salotti e le camere delle famiglie che incontra trasuda sofferenza, anche voglia di dimenticare, e il coraggio di chi non ha nulla da perdere come con la Signora Nardi, la cui storia meglio di tutte illustra questa tragedia.
Il suo viaggio prende la direzione dei milleottocentocinquantuno calzaturifici marchigiani ai tempi non molto remoti in cui cisl e uil hanno firmato il patto per l’Italia spaccando l’unità sindacale. A Fermo, presso la camera del lavoro, Ferracuti incontra Peppe Santarelli che ben conosce la realtà del calzaturificio Dock’s e la bella figura dell’imprenditore Della Valle e del suo impero rilasciata dai media, prende toni inquietanti. I tanto reclamizzati (dalla proprietà) artigiani che lavorano sui tavoli come i loro nonni cent’anni prima, il bravo reporter-narratore non riesce proprio a scovarli nel suo viaggio. Incontra, è vero, i nipoti dei solerti ciabattini, ma inchiodati ad una catena di montaggio con ritmi e fasi di lavorazione molto vicine ai Tempi moderni di Chaplin. In compagnia dei lavoratori segue le loro lotte per evitare che il padrone li usi e li getti a seconda dell ‘esigenze di mercato’ e la faccenda diventa ancora più incerta.
Nel parcheggio deserto alle spalle dello stadio di Civitanova per la Ferracuti conosce il gruppo di giovani pakistani che aspettano sabato pomeriggio per la partita di cricket. Confusi con una ‘periferia qualunque fatta di brutti palazzi di cemento che dire triste è poco’ e vestiti come un ‘qualunque ragazzo marchigiano’, comunicano ‘un grande senso di spaesamento’. Il loro divertimento è solo loro, relegato in uno spazio che confina con le roulottes di un campo nomadi, la cabine dell’Enel e lo scarico fognario, distante dalla cittadina e dai locali di incontro tra cittadini. A sentire le loro giornate, rimane una sensazione molto palpabile di incompiuto nella pezzo di vita che questi ragazzi passeranno in italia.
Il racconto prosegue con l’incontro a Prato della comunità cinese, di come la loro presenza ha cambiato la fisionomia, i tempi di vita della città. Pur senza nascondere gli aspetti più fastidiosi della convivenza: “fanno razza a sé”, Ferracuti descrive una realtà di povertà e sfruttamento che regola la vita della maggior parte di loro. Attraverso don Santino che lo guida e gli fa sapere di questa comunità, scopre che tolleranza e integrazione sono solo uno specchietto per le allodole che abboccano all’importanza di minimi diritti: i cinesi ci stanno perché sono funzionali al nostro sistema, servono perchè lavorano venti ore al giorno e consegnano in poche ore e gli affitti loro li pagano sull’unghia, in contanti e ‘il pratese gli affitta volentieri’ .
Si tira anche il fiato. Nel 1987 Intorno a Recanati, Spartaco, Marietta e la figlia Silvia hanno costituito la cooperativa agricola che oggi conta ‘cinque dipendenti a libro paga, una ragazza a contratto e cinque ragazzi con borse lavoro, attraverso convenzioni con l’a.s.l. per il recupero di soggetti psichiatrizzati’. Ed è proprio lavorando con questi ragazzi che la realtà aziendale è cresciuta con ritmi diversi da quelli brutali visti finora. Giovani ‘padroni soprattutto del loro tempo: i ritmi, perché loro potessero sostenerli, dovevano necessariamente essere più lenti. Questi ragazzi, con la loro stessa presenza, ci ricordano dunque la necessità di rallentare.’
Altre storie in giro per l’Italia. Il mobbing subito dal trombettista precario nell’orchestra dell’Arena di Verona Paolo Mattei; l’incontro con un ex-manager ora malato di tumore che offre all’interlocutore uno sguardo attento e intenso su cos’è un’azienda “non ci sono differenze tra un’azienda e le forze armate…se le persone riescono a conservare una certa lucidità poco male. Se invece ci si fa risucchiare dalla logica aziendale allora è la fine”; la testimonianza di Gregari Palamà che da giovane emigrò nelle miniere del Belgio, aprono squarci sul modo di pensare il lavoro di questo nuovo millennio in Italia e dell’immobilismo rispetto al passato: si ha l’impressione che il punto di vista di chi dà il lavoro o lo crea sia limitato a quello del proprio oscuro pianerottolo e lì ci stiano le colonne d’Ercole. Si ha l’impressione che i lavoratori siano soli, senza più difese o regole che li salvaguardino. Per chiarire meglio uso due citazioni abbastanza note e riprese da questo libro per capire il mondo del lavoro che il nostro potere politico e imprenditoriale vogliono sempre più impenetrabile: la prima è di Max Frisch sui nostri connazionale emigrati in Svizzera: “Aspettavamo braccia e sono arrivati degli esseri umani”; l’altra è di Pier Paolo Pasolini: “quella italiana è la borghesia più stupida d’Europa”.
Ultimissimo fatto. Sento queste battute tra due imprenditori all’uscita del parcheggio per la Fiera: “Ho lì gli estintori con tutte le revisioni annuali, ma sai che non so se sono vuoti o pieni” dice uno scocciato “Che storie ti fanno adesso con la sei-due-sei. Devo stare attento anch’io perché il rischio è penale ora, non più amministrativo”. Alla faccia della cultura della sicurezza e della frase di Pasolini poco sopra.
Marco Radessi